IL BIGIO di Ruinetti
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Da FighilleArte
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IL BIGIO
Che fine avrà fatto?
Lo chiamavano Bigio, ma questo era un soprannome che gli derivava dal colore del vestito, sempre uguale d'estate e d'inverno. Qualcuno lo chiamava Berto, che forse era l'abbreviativo veloce di Alberto. Lo ricordo, lo rivedo nello schermo della mente: era un bell'uomo, con una folta chioma nera mossa, con un po' di nebbia spruzzata sulle basette. Mi faceva pensare ad un divo di Hollywood, di quelli che mandano in brodo di giuggiole milioni di donne. Viveva con la vecchia madre e col cane in una casupola col tetto del capanno a lastre, sulla collina a tre chilometri circa dal paese.
Quest'uomo suscitava curiosità, tanto che sembrava o forse a me pareva che tutti sapessero tutto, anche il contrario, di lui. Qualcuno lo stigmatizzava un po' lento di comprendonio, ma era certo che sapesse fare bene i propri interessi, che era legato ai soldi, sparagnino. Non era sposato, non aveva un'amante, né una fidanzata perché la capo di casa glielo impediva: “Le donne vogliono solo i tuoi soldi.” Questo e molto altro seppi da lui stesso perché alcune volte, durante le mie escursioni a piedi, passavo da lì e mi fermavo volentieri quando lo vedevo trafficare nell'aia. Mi piaceva conversare col Bigio, che, al contrario del giudizio corrente, trovavo interessante, addirittura con guizzi di originalità. Si esprimeva col rispetto della grammatica, rimbalzava correttamente dal condizionale al congiuntivo. Ma la logica incespicava in improvvisi sobbalzi. Mi disse che aveva frequentato il corso superiore della scuola elementare e conservava in un cassetto la relativa licenza come quella del maresciallo dei carabinieri comandante di stazione. E sicuramente possedeva una buona riserva di risparmi, però le sue tasche, quasi sempre, erano vuote o leggere perché la borsa la custodiva l'arcigna genitrice, che, probabilmente, aveva la banca sotto il materasso.
Le spese della famigliola erano ridotte al minimo. L'orto e il pollaio fornivano la maggior parte del necessario per il sostentamento.
Scendeva in paese la mattina di ogni sabato, giorno di mercato. Lo si vedeva passeggiare lentamente, vien da dire solenne, per il corso, sostare nell'affollata piazza del centro, sempre perfetto, sempre grigio, compresa la cravatta, con un fazzoletto rosso a spicchio che spuntava dal taschino. Reggeva, di solito, una borsa, probabilmente similpelle, marrone sbiadito, paragonabile, come forma, a quelle che usano i medici, qualche volta piena, gonfia, altra volta più o meno flaccida. Parlava con tutti, conoscenti e no e a tutti dava del voi, ma non per reminiscenza fascista, ché di politica non s'interessava, forse per un suo senso di rispetto, per un certo disagio esistenziale o per inveterata abitudine familiare, timidezza o va a capire perché. Aveva i suoi affezionati clienti e le poste fisse. Infatti la borsa era il suo negozio, sempre più o meno carica di selvaggina. I tartufi, che però non aveva sempre, li teneva in un mini cartoccio di carta paglierina nella tasca interna della giacca, che, all'occorrenza, apriva per fare annusare il loro profumo. Era un mistero: come si procurava fagiani, allodole e, talvolta, anche la lepre? Che, se non vendeva, barattava dai i negozianti con zucchero, vino, farina e altro ancora. Comprava a sua volta la cacciagione? Forse. Però girava il sospetto che facesse il bracconiere. Comunque, se davvero cacciava di frodo, doveva essere proprio bravo per farla in barba ai carabinieri e per catturare tante bestiole. Invece la provenienza dei preziosi funghi sotterranei non era un arcano. Li trovava. Aveva addestrato il cane memore degli insegnamenti di suo padre purtroppo deceduto ancora in giovane età. Possedeva la relativa licenza. Li vendeva a prezzi ragionevoli. Glieli acquistava sempre il proprietario dell'albergo pagandoli sull'unghia, senza battere giglio.
Tutti i sabati riusciva a vuotare la borsa e la tasca della giacca, mentre a casa vuotava il borsello nelle mani della madre. Ma faceva la cresta. Aveva anche lui le sue private necessità.
Il paese è piccolo, la gente mormora e lui era spesso protagonista di facezie, racconti non sempre rispettosi della verità. Dicevano che faceva il bagno al fiume una volta all'anno, prima di Pasqua, quando si fanno le pulizie di casa in attesa che passi il parroco per la benedizione rituale. Ne dicevano tante.
Ripenso all'ultima volta che mi fermai a a parlarci. Lo trovai, quasi abbandonato, seduto sull'ultimo gradino della scala esterna di casa e mi parve strano perché lo avevo visto sempre lavorare, instancabile. Mi fermai e sedetti senza invito.
“State male?”
“Chi ve lo ha detto?”
Aveva risposto senza rispondere, dribblando la domanda. Poi parlammo, cioè parlò quasi sempre lui e alcune espressioni mi parvero belle, da scrivere sui libri. Ne ho disperse molte nella corsa del tempo. A casa non era grigio. Mi saltano in mente i suoi pantaloni di fustagno marrone, informi, col cavallo basso quando ancora certamente non era di moda, sostenuti in vita da una cintola senza la fibbia, annodata come fosse una corda, “umile capestro”. Qualcosa ricordo, con piacere e nostalgia. Ricordare è ritrovare, rivivere. Quel modo di parlare saltando da palo in frasca, acrobazie di un atleta della mente, faceva stare in campana, cioè con l'attenzione sospesa.
“Il mio babbo era l'uomo più bravo, che si nascondeva nell'umiltà, guadagnava come fuochista nel treno, scialacquava in carità, prendeva le botte dalla mia mamma, è morto prima della pensione. Lo so: dicono che ho perso tutti i venerdì, voi lo sapete?”
“Non date ascolto alle chiacchiere.”
“Dicono che vado a rubare...”
“Questo non l'ha detto nessuno...”
“I miei insegnanti sono bravi: il silenzio e la solitudine; l'aula è la vallata, viva, continuamente nuova dall'alba al tramonto, che di notte viaggia nella paura, ma ride alla nascita del giorno. Il sole e la luna sono marito e moglie. Vanno d'accordo perché s'incontrano di sfuggita per salutarsi. E uno campa di giorno, lei di notte Invece il mio babbo e la mia mamma combattevano perché stavano sempre insieme... All'incrocio, se c'è una donna bella la carica il camionista. Io ho visto quella con la lacca rossa sulla bocca, con la cipria e lo stucco sul viso.”
“Sarà il trucco, il fondotinta...”
“Sì, come l'intonaco, il restauro.”
Al bar il Bigio non aveva mai messo piede, ma era presente nelle chiacchiere, protagonista dopo lo sport e la politica. Lo sapevo che, che di tanto in tanto, faceva visita alle professioniste dell'amore fuggente nella camionabile a poche centinaia di metri in linea d'aria da casa sua. La frequenza delle uscite non la conoscevo, però rispondeva al vero che frequentasse quel luogo, difatti me lo aveva accennato. Ma poi i racconti lievitavano. Un cliente, tra una beccata e un'altra nella tazza del cappuccino, che apertamente si dichiarava solo osservatore occasionale dell'amore libero, affermò di averlo visto contrattare la prestazione, lo aveva sentito chiedere lo sconto come fanno spesso le e gli acquirenti al mercato. Lo descrisse sempre ben vestito anche in quelle occasioni, con la cravatta e la borsa d'ordinanza. Una volta raccontò un episodio, penso però fosse una novella di pessimo gusto. Disse che il Bigio, non avendo intera la somma richiesta, tirò fuori dalla borsa una starna, ma la professionista rifiutò l'offerta con decisione.
“Voi di uccelli non ve ne intendete, ma questo ha il suo costo!”
Al che la donna, forse erroneamente colpita nell'orgoglio, lo prese a botte con la borsetta e gli scagliò contro delle male parole. Quando la furia si placò lui si ricompose e, rimettendo nella borsa il pennuto, le disse con garbo: “Vi saluto, signora.”
I presenti risero, io rimasi serio e uno di loro mi rivolse una sguardo fisso, interrogativo.
Poi il Bigio scomparve. Appena morta sua madre, in quattro e quattro otto vendette casa, cane e nessuno seppe più niente di lui. Ancora, dopo tanti anni me lo chiedo:
“Che fine avrà fatto?”
Franco Ruinetti
Illustrazioni di Enzo Maneglia Man
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